All’interno delle discipline filosofiche, il tema della vita e della sua chiusura, ha sempre solleticato l’interesse di numerose personalità. Una fra queste è stata Heidegger, che ha meditato sul concetto relativo alla morte e sulla dualità anima-corpo, che viene da lui legittimata nella dualità fra il richiamo della coscienza e l’Esserci. Essere e tempo è una delle opere in cui parla della sua visione della morte, la quale ha inoltre influenzato la filosofia contemporanea. All’interno di quest’opera sostiene che l’essere, in un preciso istante del suo divenite, finisce per non esserci più: in tal senso la “fine” dell’esistenza umana è un concetto per lui inadeguato, indirizzato a rappresentare quel “non essere” che è la morte. Ma cosa vuole dire veramente Heidegger? Che l’essere, finché è, è già contemporaneamente il suo “non ancora”, ovvero la sua morte, la sua fine. Per lui il fine proprio della morte non significa un essere alla fine dell’esserci, ma un essere indirizzato a priori verso la fine: la morte si configura dunque come un modo di essere che l’esserci assume fin dal momento in cui c’è.L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire”: Per il filosofo dunque la morte non è la conclusione della vita nel senso della sua fine assoluta, perché la morte stessa appartiene alla vita in quanto, con l’atto della nascita, comincia la nostra possibilità di morire.

  1. L’uomo non è una “cosa” a cui manca “qualcosa”

Sostenendo che la morte non è una condizione che manca alla vita, ma che le appartiene fin dai primi momenti e che la completa, si vuole sottolineare quanto l’uomo non sia manchevole di qualcosa per essere finito. L’essere umano è sempre unico, tutto sé stesso, contrariamente a quello che pensiamo nel nostro confronto con la morte, che reputiamo spesso essere qualcosa che ci sottrae la vita. Bisogna pensare alla morte come una possibilità che ciascuno assume da solo e non come una scelta, perché la morte non si sceglie, fa già parte di noi e non possiamo sottrarla. Conseguentemente, secondo Heidegger, in noi, nel momento in cui si rivela la possibilità della morte, si apre una forte angoscia. Quest’ultima non è da intendere come terrore o depressione, ma come comprensione originaria, come un’intuizione immediata, del nostro autentico poter essere.

“ La morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente, in quanto esso è per la fine”.

Martin Heidegger

  1. Il progetto autentico in essere per la morte

Heidegger infine parla dell’essere autentico in funzione della morte: essenzialmente invita a non fuggire di fronte al suo essere possibile e a non nascondere la verità con i convenevoli e le chiaccherate. Essendo la morte la possibilità più certa di ogni esistenza, essere autentici per la morte costituisce una vera responsabilità. Bisogna prendersi cura della propria essenza, non ostacolandone la realizzazione. Heidegger sfocia in una riflessione estrema, che vede nel suicidio l’autorealizzazione della propria fine, in quanto capace di togliere il peso quotidiano dell’essere per la morte. Oggi sostenere una posizione così radicale, non risponde all’idea comune che la vita va affrontata al meglio e che, gli ostacoli, vanno superati. Alla luce della riflessione di Heidegger, pensare alla nostra essenza non risulta difficile e, Cattolica San Lorenzo , che fornisce servizi funebri a Roma, si confronta frequentemente con quella che, per Heidegger, dovrebbe essere una verità interiorizzata è accettata. Non tutti siamo dei filosofi pessimisti e viviamo la nostra caducità umana in modi differenti, che possono essere più consapevoli o, semplicemente, più emotivi.